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mercoledì 20 giugno 2012

Salute e Sicurezza sul lavoro. Alcuni casi dalla recente giurisprudenza di Cassazione. Spazi confinati e documento valutazione dei rischi.


“Salute e sicurezza sul lavoro: case histories dalla recente giurisprudenza”.

Abstract della relazione dell’Avv. Luigi De Valeri tenuta a Roma il 18 giugno 2012 nel corso della I° Convention di Federcongressi & Eventi, delegazione Abruzzo & Lazio.


 E’ opportuno inizialmente fare riferimento alla norma di chiusura del sistema approntato dal legislatore a tutela del lavoratore applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato che impone precisi obblighi al datore di lavoro.

L’art. 2087 del codice civile stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
Questa norma, integrata dalle disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei lavoratori, si applica anche al committente tenuto a provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche non dipendenti, ove si riservi i poteri tecnico-organizzativi dell’opera da eseguire (Cassazione n.4129/2002).

Il datore di lavoro, la cui responsabilità derivante dall’obbligo di sicurezza ex art. 2087 codice civile è di natura contrattuale, in tal modo viene costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei lavoratori con la conseguenza che ove non ottemperi agli obblighi di tutela l’evento lesivo gli viene imputato ex art. 40, 2°comma codice penale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.”
Egli ha il dovere di accertarsi che l’ambiente di lavoro abbia i requisiti di legalità quanto ai presidi antinfortunistici e a vigilare costantemente che le condizioni  siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera (Cass. Sezioni unite 5/1998).

Passiamo ora alle principali leggi speciali in materia di salute e sicurezza sul lavoro: il D. Lgs. 626/1994, modificato dal D.Lgs. 242/1996 è stato integralmente trasfuso nel D. Lgs. 81/2008 il Testo Unico, integrato poi dal D. Lgs. 106/2009.
L’art. 2 del Testo Unico prevede le definizioni dei vari soggetti interessati dalla normativa antinfortunistica e tra questi mi soffermerò brevemente sulle peculiarità del datore di lavoro, del dirigente e del preposto.

Il datore di lavoro è il soggetto titolare del rapporto di lavoro o quel soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione aziendale che dirige o dell’unità produttiva su cui esercita i poteri decisionali e di spesa per cui ha l’effettivo potere di incidere sulla sicurezza dei luoghi di lavoro.
Gli obblighi di competenza del datore di lavoro, previsti dagli artt. 17 e 18, sono svariati e, tra gli altri, l’organizzazione del servizio di prevenzione e protezione, la redazione del documento di valutazione dei rischi presenti negli ambienti lavorativi, la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (R.S.P.P.).

Il dirigente è quella persona che in ragione delle comprovate competenze professionali e dei poteri gerarchici adeguati all’incarico conferitogli rende operative le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa ed effettuando i relativi controlli.
Il dirigente, in sostituzione del datore di lavoro, può designare il medico competente, provvede all’individuazione dei lavoratori addetti all’esecuzione delle misure antincendio, di primo soccorso e di salvataggio in generale, la dotazione al personale dei dispositivi di sicurezza individuale (D.P.I), cura l’obbligo di mettere i lavoratori in condizioni di ricevere informazione, formazione e addestramento, il monitoraggio degli eventuali cambiamenti che riguardano le unità produttive e l’adeguamento delle misure preventive a tutela dei lavoratori.
Il preposto alla sicurezza è definito dall’art. 2 del Testo Unico come colui che sulla base delle competenze professionale acquisite, coordina e controlla il regolare svolgimento delle attività lavorative assicurando la realizzazione delle direttive ricevute grazie al potere funzionale di cui è dotato.
Quando il datore di lavoro decide di organizzare la sua attività prevedendo alcune funzioni aziendali sovra ordinate ad altre genera automaticamente la figura del preposto o del dirigente ovvero colui che nell’attività lavorativa esercita una supremazia su altri a lui sottoposti, su questa figura il legislatore fa ricadere la qualifica di preposto ai sensi dell’art. 299 del Testo Unico.
Come risaputo in azienda non si usa il termine “preposto” ma nell’organizzazione produttiva si parla di: caporeparto, caposquadra, capocantiere, capoturno, coordinatore, supervisor o team leader.

Tutte queste figure sono da considerarsi preposti, costoro sono dipendenti presenti in ogni settore lavorativo con mansioni di preminenza su altri lavoratori e ne determinano le modalità operative, sono i più vicini ai lavoratori e ne conoscono tutte le attività e i rischi ad esse collegate.
I giudici hanno attribuito la funzione di preposto in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro facendo riferimento alle mansioni effettivamente svolte in azienda al di là di una qualificazione giuridica.

La Cassazione penale con la sentenza n. 1502/2010 ha precisato che il preposto, come il datore di lavoro e il dirigente, è un soggetto cui competono poteri originari e specifici, differenziati tra loro e collegati alle funzioni ad essi demandate, la cui inosservanza comporta la diretta responsabilità del soggetto iure proprio, per cui il preposto è chiamato a rispondere a titolo diretto e personale per l’inosservanza di obblighi che allo stesso fanno capo.
I preposti, i cui obblighi sono indicati nell’art. 19 del Testo Unico, sono i soggetti che sovrintendono all’espletamento delle attività soggette alla normativa di prevenzione degli infortuni tuttavia va precisato che non spetta al preposto adottare misure di prevenzione ma far applicare quella predisposte da altri intervenendo con le proprie direttive.

Il sovrintendere richiede un requisito preliminare ovvero il possesso di una supremazia riconosciuta sugli altri lavoratori, infatti il preposto è stato definito da Cassazione n. 760/91 come chiunque si trovi in posizione tale da dover dirigere e sorvegliare l’attività lavorativa di altri operai ai suoi ordini.
Anche prescindendo da una investitura formale da parte del datore di lavoro nella posizione di preposto con attribuzione dei compiti e delle responsabilità il preposto anche di fatto sarà comunque obbligato a rispettare e a far rispettare ai lavoratori la normativa antinfortunistica (art. 299 del Testo Unico “esercizio di fatto di poteri direttivi”).
Quindi in caso di mancata osservanza delle misure di sicurezza da parte di uno o più lavoratori il caporeparto non può limitarsi a rivolgere benevoli richiami ma deve informare il datore di lavoro o il dirigente legittimato a infliggere richiami formali e sanzioni a carico dei dipendenti riottoso (Cassazione penale n. 10272/90).

Il preposto deve effettuare il controllo dei lavoratori per verificare il rispetto delle norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro, l’utilizzo corretto dei dispositivi di sicurezza individuali e degli strumenti necessari per svolgere le singole mansioni.
Il preposto deve vigilare sulla presenza di rischi imminenti per i lavoratori, deve dirigere le operazioni di evacuazione in caso di pericolo grave ed immediato e vigilare sulla partecipazione periodica ai corsi di formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro.
Il preposto in particolare deve, ai sensi dell’art. 19 del Testo Unico, richiamare ogni singolo lavoratore all’osservanza degli obblighi di legge in materia di prevenzione.
Egli dovrà far osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e proprie, ai fini della protezione collettiva e individuale, far utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto nonché i dispositivi di sicurezza, verificare che ogni lavoratore provveda a segnalare immediatamente al datore, al dirigente o al preposto, le deficienze dei mezzi e dei dispositivi e qualsiasi condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (R.L.S.).

Ricordo che il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, già presente nel decreto 626/94 ora all’art. 2 del Testo Unico, è una persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro, non può essere né il datore di lavoro né il R.S.P.P., deve essere eletto tra i dipendenti a tempo indeterminato, le sue attribuzioni, tra cui in primis la consultazione preventiva in ordine alla valutazione dei rischi in azienda, sono indicate nell’art. 50 del T.U.

Tornando al preposto dovrà anche controllare che ogni lavoratore non proceda a rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza, controllare che ogni lavoratore non compia di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza che possano compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori.
L’art. 56 del Testo Unico stabilisce le sanzioni per il preposto che violi le suddette prescrizioni ovvero l’arresto da uno a tre mesi o l’ammenda che può arrivare fino ad euro 2.000.
Altra figura professionale prevista dall’art. 2 del Testo Unico è il responsabile per la sicurezza e la prevenzione (R.S.P.P.) che, designato dal datore cui risponde, è persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali indicati all’art. 32 e coordina il servizio di prevenzione protezione dai rischi.

Dopo queste note introduttive passiamo ai tre casi tratti dalla giurisprudenza, si riferiscono a procedimenti conclusi nei primi mesi del 2012 dove la Corte di Cassazione, giudice di legittimità, ha applicato le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro come previste nel Testo Unico con ripercussioni sia in sede civile giuslavoristica che in materia di accertamento di responsabilità penali.

1) La clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro se il datore di lavoro non ha effettuato la valutazione dei rischi è nulla ed il rapporto si considera a tempo indeterminato.
Cass. Civile,sez. lavoro, 2 aprile 2012 n. 5241, rif.  normativi D. Lgs. 626/96 art. 4, D. Lgs. 368/2001 art. 1 comma 2 e art. 3 lettera D, art. 1419, 2° comma, codice civile.

Il primo caso riguarda un dipendente delle Poste Italiane che aveva impugnato i contratti a termine stipulati per esigenze sostitutive del personale deducendone l’illegittimità per la genericità della causale sostitutiva, la mancata indicazione del nome dei lavoratori sostituiti e perché stipulati nonostante il divieto di procedere ad assunzioni a termine nelle sedi di lavoro dove non era stata effettuata la valutazione dei rischi.   
Sia il giudice di primo grado che la Corte di Appello di Milano avevano respinto le richieste del lavoratore che pertanto aveva proposto ricorso per Cassazione.

Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato è regolato dal D. Lgs. 368 del 2001, come modificato dalla L. 247/2007 e da ultimo dal D. Legge 112/2008.
E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo.
L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le suddette ragioni.

L’art. 3 del D.Lgs. 368/2001 ha introdotto una serie di divieti all’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato e in particolare alla lettera D prevede il divieto per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 626/1994 e successive modifiche.
Per il legislatore la valutazione dei rischi da parte del datore è presupposto di legittimità del contratto a termine che, si ricordi, è l’eccezione per il contratto di lavoro subordinato stipulato di regola a tempo indeterminato.

La valutazione del legislatore deriva dalla più intensa protezione del lavoratore nei contratti atipici, flessibili o a termine dove vi è la minore esperienza con l’ambiente di lavoro e gli strumenti di lavoro, nonché una minore professionalità e formazione.
L’obbligo di sicurezza verso i lavoratori con minore esperienza è rafforzato dal disvalore evidenziato dal legislatore verso gli inadempimenti in tema di sicurezza dei luoghi di lavoro che si concretizza nel divieto di stipulare contratti a termine per il datore che non abbia effettuato la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori presenti nella propria organizzazione.
Quindi il datore se vorrà evitare la declaratoria di nullità di apposizione del termine per questo specifico inadempimento dovrà dimostrare di aver svolto prima della stipula del contratto una adeguata valutazione dei rischi.
Nel caso esaminato i giudici della Cassazione hanno rinviato la causa ad altro giudice del merito della stessa Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, che nel decidere dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “la clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 626/1994 e succ. modificazioni, è nulla per contrarietà a norma imperativa ed il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato.”
Il giudice di merito deve verificare la sussistenza del presupposto indicato dall’art. 3  lettera D del D.Lgs. 368/2001 da cui deriva la legittimità o meno del termine apposto nel contratto di lavoro.

 
2) La responsabilità dei committenti. Reato di omicidio colposo.
Cassazione penale IV, 30 gennaio 2012 n. 3563, rif. normativi art. 589 codice penale, art. 26 T.U. D. Lgs. 81/2008, art. 2222 codice civile.

Con la seconda sentenza passiamo in ambito di diritto penale.
Il caso in questione riguardava un lavoratore precipitato dall’alto di una copertura di un fabbricato adibito a magazzino-garage  nel corso di un contratto di prestazione d’opera.

Il contratto di prestazione d’opera è disciplinato dall’art. 2222 del codice civile e si  configura quando una persona si obbliga a compiere dietro corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.
Ai committenti-imputati era stato contestato di aver omesso di verificare l’idoneità tecnico professionale del lavoratore-prestatore d’opera, di non aver fornito a questi informazioni sui rischi connessi alla precarietà della copertura e non avere predisposto parapetti idonei ad evitare la caduta dall’alto.
I committenti, proprietari del fabbricato dove era accaduto l’incidente mortale, erano stati condannati in primo e secondo grado, in particolare la Corte di Appello di Catania nel rilevare che l’infortunio si era verificato durante l’esecuzione del contratto d’opera aveva evidenziato l’inadempimento agli obblighi di prevenzione in materia di sicurezza sul lavoro che gravavano sugli imputati in quanto committenti escludendo qualunque comportamento abnorme da parte della vittima.

La responsabilità del committente è espressamente prevista dalle norme in materia di sicurezza sul lavoro, l’art. 7 del D. Lgs. 626/94 è stato trasfuso nell’art. 26 del Testo Unico.
Per i lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d’opera il dovere di sicurezza è riferibile non solo al datore di lavoro ovvero l’appaltatore nel primo caso ma anche al committente nel secondo caso.
Va tuttavia sottolineato, come fatto rilevare dai giudici di legittimità, che non può esigersi dal committente un controllo pressante e continuo sull’andamento dei lavori.
E’ necessario l’esame della situazione concreta per accertare l’incidenza della condotta del committente nel verificarsi dell’evento, la specificità dei lavori da eseguire, i criteri della scelta dell’appaltatore o del prestatore, la loro capacità tecnica che deve essere proporzionata al tipo di attività commissionata, l’ingerenza o meno del committente nell’esecuzione dei lavori e la percepibilità agevole di eventuali situazioni di pericolo.
Ai fini dell’eventuale culpa in eligendo a carico del committente rileva da parte di questi l’essersi accertato o meno delle capacità tecniche ed organizzative del prestatore d’opera.
A seguito di ricorso in Cassazione la sentenza è stata annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catania.

3) La responsabilità del datore di lavoro ed il comportamento abnorme del lavoratore vittima dell’infortunio mortale.
Cassazione sez. penale, sentenza n. 11112 del 21 marzo 2012.
Rif. normativi: art. 589 codice penale, art.18 Testo Unico.

Il terzo e ultimo caso su cui mi soffermo è relativo ad un incidente occorso ad un operaio il quale si era messo all’interno del perimetro del telaio di un autocarro con il cassone rialzato e, nello smontare il raccordo del tubo idraulico, il cassone era caduto determinandone la morte.
Erano stati imputati del reato di omicidio colposo il datore di lavoro, amministratore di una s.r.l., e un preposto cui veniva addebitato che per negligenza,imprudenza ed imperizia e violazione di specifiche norme di prevenzione infortuni, ovvero mancata informazione formazione del lavoratore sui rischi, omessa previsione del rischio nel documento di valutazione, mancata manutenzione dell’autocarro, assenza di un fermo automatico del cassone avevano causato la morte del dipendente.
Entrambi erano stati assolti in primo e secondo grado e pertanto il difensore delle parti civili era ricorso in Cassazione.
Il lavoratore era stato assunto formalmente come impiegato e non era investito in azienda di specifiche funzioni, svolgendo diversi lavori manuali anche per la sfera privata del datore, praticamente era un “tuttofare”.
La Corte di Appello aveva assolto gli imputati a causa dell’anomalia della condotta della vittima che aveva agito di sua iniziativa al di fuori di ordini e prassi aziendali.

I giudici di Cassazione, viceversa, partendo dalla circostanza che il lavoratore stava svolgendo al momento del fatto mansioni diverse dalla qualifica di assunzione come “operaio tecnico di cantiere”, hanno considerato che qualora vi sia un cambio di mansioni, possibile seppur con limiti per lo ius variandi ex art. 2103 del codice civile, per il rispetto delle esigenze di prevenzione infortuni vi è l’obbligo per il datore di assicurare una adeguata formazione ed informazione al lavoratore sui rischi della diversa attività cui viene addetto (conforme a Cassazione sez. III, n. 4063/2007).
Nel caso in questione era evidente la violazione di queste regole di prevenzione perché il lavoratore assunto con una qualifica di impiegato tecnico di cantiere in realtà era adibito alle più svariate mansioni non solo in azienda ma anche per le esigenze personali del datore di lavoro.
Secondo i giudici l’operaio svolgeva mansioni indefinite con mancanza di formazione e informazione sui rischi.
L’esclusione di responsabilità del datore da parte dei giudici di merito sulla base della negligenza della vittima, che con il suo comportamento avrebbe posto in essere una condotta da sola sufficiente a determinare l’evento, va riconsiderata poiché il datore aveva tollerato che la vittima non avesse specifiche mansioni, non aveva fornito formazione ed informazione e consentito che costui si cimentasse nelle più svariate attività di lavoro, da ciò si evidenziava una condotta omissiva colposa a suo carico.
I giudici di Cassazione quindi hanno annullato la sentenza agli effetti civili limitatamente alla posizione del datore di lavoro con rinvio al grado di appello, il preposto è stato assolto in quanto non era stata provata la sua qualifica ovvero la sovra ordinazione gerarchica rispetto al lavoratore deceduto.

Al termine di questa relazione ho l’obbligo di ricordare che dal 23 novembre 2011 è in vigore il D.P.R. n.177 del 14.9.2011 recante il regolamento relativo alle norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Cosa si intende per “spazio confinato” ?
Nel Testo Unico, allegato IV punto 3, è definito come un luogo/ambiente circoscritto, totalmente o parzialmente chiuso che non è stato progettato o costruito per essere occupato da persone né destinato normalmente ad esserlo ma che all’occasione può essere impegnato per l’esecuzione di interventi come l’ispezione, la manutenzione o la riparazione, la pulizia, ecc., gli spazi confinati sono ambienti dove gli scambi naturali dell’atmosfera interna con l’aria esterna risultano particolarmente ridotti.
Gli spazi confinati possono configurarsi in tutti i luoghi di lavoro sotto o sopra il suolo e per essere chiari vi rientrano le cisterne interrate,le fognature o condotte sotterranee, serbatoi, pozzi di ascensori, montacarichi, celle di refrigerazione, piccoli locali accessori, ecc.
I datori di lavoro sono chiamati ad aggiornare il documento di valutazione dei rischi previsto dagli artt. 17 e 28 del Testo Unico, verificando se nella propria azienda esistono rischi derivanti dall’accesso in ambienti confinati, il datore dovrà conservare nel D.V.R. la dettagliata registrazione dei rilievi e delle verifiche eseguite con le relative conclusioni per tali rischi.


Lo Studio Legale De Valeri è a disposizione per ogni chiarimento sui temi trattati e per un check-up in materia di salute e sicurezza sul lavoro.